lunedì 1 dicembre 2008

Un giorno, questo sarà solo il primo giorno di dicembre.

Riflettendo su questa data, ripensando al passato, ho rivisto il sorriso di Rita.

Arrivò un giorno, avrò avuto sei anni, con la mamma e i suoi fratelli più grandi, nel nostro palazzo. Era una bambina piena di energia e per qualche anno fummo amici inseparabili.

Solo che lei era un poco più grande di me e, a un certo punto, le cose cambiarono: mentre io ero ancora un bambino, lei diventava una giovane donna.
Crescendo la sua bellezza esplose, era quella che bellezza di cui solo le giovani donne mediterranee sono capaci: lunghi capelli mossi corvini, due occhi nocciola profondi, un sorriso che ti catturava. Divenne pure miss qualche cosa.

Era troppo bella, di quella bellezza che ti rende accolta ovunque, che sembra aprirti ogni porta, che sembra rendere tutto così facile e la vita solo una promessa di gioia. Credette a quella illusoria promessa, e la bambina che era stata compagna di giochi divenne presto una donna, attratta dalla vita a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta.

Come tante sue coetanee e suoi coetanei di quegli anni, si lasciò catturare dalla tentazione di vivere ogni possibilità, anche la più rischiosa, purchérendesse ancora più brillante quella luce che sembrava brillare davanti all’ansia di vita e di scoperta di quegli anni. Ma, quella luce, era in realtà quella della fiamma che stava consumando una generazione, in un caleidoscopio di esperienze che finivano spesso nell’eroina.

Fu così che il volto luminoso di quella bambina mutò in un’espressione stanca. Con gli anni, i tentativi di riconquistare la vita, che a volte illuminavano di speranza la madre per poi disperarla di nuovo. Infine, la malattia.

A un certo punto iniziò a stare male. Nulla di specifico, a sentir la mamma. Ma “inspiegabili” febbri, violente influenze, ricoveri sempre più frequenti per cose che alla sua età sarebbero state materia da aspirina. Infine, una polmonite, e un lungo ultimo ricovero.

Rita è morta un giorno nella prima metà degli anni ottanta, lasciandoci il sorriso di una bambina bellissima uccisa dalle illusioni e dall’AIDS.

La sua è la storia di un’epoca lontana. Dalla fine degli anni novanta del secolo scorso l’HIV non è -se affrontato in tempo- sinonimo di AIDS, non è necessariamente una condanna a morte, tanti farmaci dal nome stranissimo promettono di impedire all’ospite indesiderato di replicarsi, spostando sempre più in là il confine, dando la forza per trovare il coraggio di vivere ogni giorno e di avere fiducia nel futuro.


Un caro amico che ho avuto l’onore di conoscere in questi mesi m’ha raccontato il suo incontro con l’HIV, nella metà degli anni ottanta, quando all’inizio di un percorso di disintossicazione, scoprì di essere “positivo”.

Per lui, in quei giorni, continuare non aveva più senso ma fu fortunato: il medico del SERT che seguiva la sua disintossicazione lo convinse che, se pure poteva restargli poco da vivere, era meglio viverlo bene.
Quel mio amico è ancora qui, è il ritratto della salute, e accoglie con bonomia chi, con magari vent’anni meno di lui, scopre spaventato questo subdolo imbucato nel proprio sangue.

Incontrare lui, e i suoi “colleghi”, persone tra loro così diverse mi ha aperto gli occhi.
Mi ha ricordato come, nelle avversità, la parte migliore di noi riveli che non è morta, ma s’era solo ritirata in disparte, in attesa di poter soccorrere qualcuno in un momento di tristezza, di poter gioire perché un bimbo è nato senza ereditare il virus dalla mamma, di rassicurare chi attende con trepidazione i risultati "del test", di condividere le battaglie di ogni giorno.

Lui e i suoi compagni d'avventura non li riconoscereste mai, io non li avrei mai riconosciuti: sono ragazze, ragazzi, studenti, operai, imprenditori, padri e madri di famiglia, rimasti infettati nelle maniere più diverse.
Si nascondono nella folla
, per non perdere il lavoro, per non dover rassicurare tutti i giorni dicendo che “no, non sono contagioso”, oppure che “no, non sto per morire, mamma”, per non dover spiegare che talvolta ci vuole molto più eroismo a vivere la vita di ogni giorno, che a prendere tre pastiglie.

A tutti loro, a quelli che conosco e alle decine di milioni di nostri fratelli e sorelle per i quali oggi è un giorno purtroppo “speciale” va il mio abbraccio: un giorno, tutti quanti, troveremo il nostro raggio di sole, che ci scalderà e ci renderà liberi. Ci credo.

Fino ad allora, mi raccomando, ricordare tutti: profilattico e test! ;-)

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(ebbene sì, sono tornati i captcha o come accidenti si chiamano; purtroppo ho dovuto metterli per bloccare una nuova ondata di spammer a luci rosse)