lunedì 24 agosto 2009

PD verso il congresso - 3
Il Pd sa perché gli italiani non lo votano?

di Enrico Morando
Perché il consenso verso Berlusconi e il centrodestra si mantiene stabile, malgrado il discredito provocato dagli scandali di cui il leader del Pdl è protagonista? Sbaglierò, ma penso che il congresso del Pd ormai in corso farebbe bene a concentrarsi sul tentativo di rispondere a questa domanda, piuttosto che sull’individuazone del partner “giusto”, per una nuova tattica delle alleanze politiche: Di Pietro o Casini? O entrambi? E, se entrambi, tenuti assieme come?
Tra l’altro, mettendo il dibattito congressuale su questo binario morto, si aggiunge ambiguità all’inconcludenza.

Le (sempre utili) semplificazioni giornalistiche, non ci avevano detto che - tra i due principali contendenti alla segreteria del Pd - Bersani era quello che voleva tornare alle alleanze, dopo “l’ubriacatura della vocazione maggioritaria”, intesa (male) come autosufficienza? E Franceschini, non era quello che non negava la continuità con la scelta “dell’andare da soli”, sia pue con tutte le cautele del caso? Ma se Bersani non vuole Di Pietro mentre Franceschini sì (faccio mia la semplificazione giornalistica delle ultime dichiarazioni di entrambi), di quali alleanze stanno parlando, l’uno e l’altro?

Meglio, dunque, tornare alla domanda iniziale. Che, naturalmente, può essere formulata in modi diversi: perché - mentre Berlusconi annaspa nel guano dei suoi scandali - i cittadini delusi non rivolgono con fiducia lo sguardo verso il Pd? E ancora: perché, in un anno, il Pd ha perso quattro milioni di voti, mentre il Pdl non ne ha guadagnati, anzi ne ha persi a sua volta un bel po’?

Per cercare la risposta, sarà bene riconoscere una volta per tutte che Berlusconi - con la nascita del Pdl, partito egemone alleato della Lega, cui nessun dibattito ferragostano può conferire la centralità che non ha - non è un’anomalia, un incidente di percorso, una parentesi nella storia politica italiana, destinata a chiudersi senza lasciare grande traccia di sé. Al contrario: Berlusconi e il centrodestra di cui è leader hanno saputo interpretare la crisi italiana post ’89 meglio di quanto abbiamo saputo fare noi del centrosinistra e hanno fornito una risposta di tipo populistico-conservatore ai principali problemi del Paese. È una risposta «confusamente, ma spesso efficacemente vocata al cambiamento: federalismo fiscale che vuole vuole apparire non indifferente al Mezzogiorno (consiglio dei Ministri a Napoli e soluzione della questione rifiuti); lotta ai “fannulloni”; riforma della scuola e… della giustizia; approccio alla riforma dei principi contrattuali, vera rivoluzione per il mondo del lavoro; ripresa di un rapporto positivo con l’Europa (ruolo di Tremonti)». Sono parole di De Giovanni (A destra tutta, Marsilio, Maggio 2009), che così conclude questa parte del ragionamento: «… il centrodestra sembra essersi collocato nella corrente giusta, perché cerca di star vigile su tutte le crepe che si sono aperte nel vecchio sistema egemonico… e le elezioni politiche mi pare abbiano stabilizzato questo suo insediamento. Si tratta di vedere come reagirà il centrosinistra».
Appunto. Se si vuole che la reazione sia adeguata, è dal cambiamento che vogliamo per l’Italia che dobbiamo ripartire. Le alleanze presenti e future le misureremo con questo metro. Sapendo che - in ogni caso - moltissimo (quasi tutto) dipenderà dal Pd. Non saranno infatti né l’Idv, né l’Udc, né Sinistra e libertà che potranno portarci in dote ciò che saremo costretti a prenderci da soli: due milioni di voti di italiani che hanno votato e votano per Berlusconi, ma potrebbero smettere di farlo e scegliere il centrosinistra se quest’ultimo fosse davvero in grado di rompere con quello che De Giovanni chiama «il vecchio sistema egemonico», che «spinge alla conservazione delle sue dominanti: l’intoccabilità della prima parte della Costituzione; … l’insediamento nella varie corporazioni sindacalizzate;… un rapporto con la magistratura che confonde la sua indipendenza con la sua assoluta discrezionalità…; la difesa del parlamentarismo incapace di decidere; il sedersi su sistemi di potere locale che hanno anche dissipato denaro pubblico…».

Il centrosinistra che ha dato vita all’Unione era tutto qui? Certamente no. Ma se Berlusconi ha potuto, dopo 15 anni di successi e sconfitte elettorali, stravincere il confronto del 2008, è stato perché, dopotutto, sembrava credibilmente promettere agli italiani quel cambiamento che l’Unione - per cultura politica, rappresentanza sociale ed assetto politico - non “poteva” realizzare e non aveva neppure iniziato a realizzare. Salvo nel caso (l’euro) in cui aveva potuto fare leva su di un vincolo esterno.

L’esperienza di questo anno sta deludendo molti che avevano preso sul serio - un po’ per convinzione, un po’ per disperazione - la promessa berlusconiana: il nuovo modello contrattuale sembra buono solo per uscire da pasticcio estivo delle gabbie salariali; la legge sulla sicurezza trasforma per un mese in pericolosi criminali quegli stessi lavoratori cui un’altra legge, contemporanea alla prima, garantisce una sanatoria senza precedenti; sì alla cassa integrazione in deroga, no alla riforma degli ammortizzatori sociali, perché «abbiamo il mercato del lavoro migliore del mondo».

Perché il Pd non riesce ad approfittarne? Perché appare più preoccupato di rappresentare “minoranze” minacciare dagli interventi confusi del Governo che di rappresentare la maggioranza degli italiani, almeno potenzialmente interessata a un cambiamento ispirato ai suoi valori. Di qui il confuso discutere di alleanze politiche: come se si sperasse che possa venire da lì, non dalla capacità di far valere le buone ragioni del cambiamento presso la maggioranza della società italiana, la forza per tornare la governo.

Il Congresso del Pd può ancora rimettere le cose al loro posto, se i suoi principali protagonisti saranno i primi a non accontentarsi di un dibattito che resti in superficie, che non parta dalle domande vere.
Due esempi, uno sulle politiche, l’altro sulla politica. Constatati gli effetti della crisi, è venuto o no il tempo di una radicale riforma del modello contrattuale, che esalti la contrattazione di secondo livello; e dell’adozione di un sistema di flexecurity secondo le precise proposte di Ichino (quelle, non “quasi” quelle, ché non si sa cosa vuol dire)? Il sistema politico-partitico uscito dal voto del 2008 - due coalizioni che competono per il governo, ciascuna organizzata attorno a un partito perno - merita di essere consolidato, con apposite riforme costituzionali e dei partiti, o è un’anomalia da superare? E se si preferisce il suo consolidamento, le necessarie riforme istituzionali debbono essere realizzate in primo luogo attraverso una convergenza tra Pdl e Pd, o costruendo prima un accordo tra “le opposizioni”?
Le risposte si possono rintrecciare nelle mozioni già presentate? Sì, ma la confusione di questi giorni suggerisce di tornarci sopra, con uno sforzo ulteriore di chiarezza.

http://www.ilriformista.it/stories/Italia/79139/

Nessun commento:

Posta un commento

mi raccomando: comportati bene, o sono bastonate!
(ebbene sì, sono tornati i captcha o come accidenti si chiamano; purtroppo ho dovuto metterli per bloccare una nuova ondata di spammer a luci rosse)