Il capitalismo italiano, ha una caratteristica particolare, che lo distingue da quello degli altri paesi del nord del mondo: non ha capitali.
Figlio di un Paese “naturalmente” povero, privo di materie prime che ne potessero supportare lo sviluppo originario (niente carbone, niente acciaio, niente estese pianure da sfruttare industrialmente, niente colonie…) il capitalismo italiano s’è per questo sviluppato dopo gli altri e s’è specializzato nella trasformazione di materie prime altrui… questa peculiarità gli è rimasta attaccata anche perché, intorno, il Paese ospite non è che stesse meglio: povero di risorse, frazionato in stati e staterelli, ha per secoli investito le proprie risorse in palazzi bellissimi, lasciando un’economia da pezzenti.Con l’unità d’Italia prima (fatta “a debito”) e due disastrose guerre poi, la situazione non poteva di certo cambiare.
La prima azienda nazionale, così, ha sempre riflettuto queste caratteristiche: specializzata in piccoli autoveicoli per necessità del proprio mercato principale, è cresciuta internamente senza mai espandersi per davvero all’estero, covando al proprio interno il germe del disastro degli anni passati: quello delle automobili non è un mercato dai grossi ricarichi in cui i piccoli veicoli rendono necessariamente meno di quelli grandi, sicché alla prima crisi sistemica o aziendale il castello rischia di finire a terra.
Un po’ per culo, un po’ grazie ai soldi dei contribuenti, un po’ per qualche scelta azzeccata, Fiat è ancora in piedi e, curiosamente, sembra impegnata in una conquista del mondo.
Ma continua a non avere un soldo.
E, allora, si capisce cosa sta succedendo.
La “conquista dell’America” è solo un episodio, il meno rilevante di una trasformazione definitiva del gruppo.
Nel rumoroso silenzio della stampa nostrana, che fa mostra di un orgoglio nazionalistico degno del tentativo di costruire un “impero” con le faccette nere dell’Abissinia, tra l’alleanza con gli indiani, la ricerca di partner in Cina, e la strana trattativa per Opel,
Fiat in realtà sta cercando compratori.
Alla fine, un dignitoso player regionale, con il 20% di un player regionale nord americano sarà avviluppato in
una rete di “alleanze” in cui sarà sempre in minoranza.
Nulla di più facile, a quel momento, che pilotare le “alleanze”, far nascere un nuovo gruppo dal capitale diffuso da cui, finalmente come da quasi vent’anno cercano, gli Agnelli potranno uscire.
Piano piano, le quote di capitale si ridurranno sempre più, soddisfando la legione di eredi della prolifica famiglia, e il marchio nazionale diverrà parte di un colosso transnazionale in cui le radici in mercati ben più popolosi del nostro e di quello europeo garantiranno, alla buon’ora, quei capitali da sempre mancati.