Berlusconi è uomo incline alle manie di grandezza, e si starà crogiolando al pensiero del fatto che, andato alle elezioni con la solita coda di scandali, polemiche, senza liste e collezionando figure caprine per una forza che vuole “governare”, è riuscito, praticamente da solo, a sbaragliare ancora una volta l’ennesima gioiosa macchina da guerra.
Ma quando avrà finito di crogiolarsi, s’accorgerà, spero, del disastro.
Ancora una volta s’è provata la sua incapacità, la sua antipoliticità. È stata sì una grandiosa vittoria di Silvio Berlusconi, ma una sconfitta politica del centrodestra.
Dopo sedici anni, la maggioranza del Paese è ancora priva di una organizzazione politica affidabile, in mano ai “dilettanti allo sbaraglio” di Corrado, capaci di non riuscire a presentare liste inattaccabili in Lombardia (dove governano più o meno da sedici anni) e in Lazio (dove la macchina degli ex AN avrebbe dovuto essere efficientissima), di lasciare la Puglia a quell’imbonitore di Vendola, passato indenne da una stagione vergognosa, e di farsi sfuggire la Liguria, che in realtà poteva essere conquistata se solo i capataz locali (Scajola et al.) non fossero lo strazio che sono.
Certo, una volta che hai vinto lo scudetto non stai a ricordare che qualche partita l’hai vinta per autorete dell’avversario, ma che il Piemonte sia un gentile omaggio di Beppe Grillo è innegabile.
E, per inciso, la Lega dilaga per davvero, mentre a sinistra l’Italia dei Malori e le Cinque stelle hanno assieme un consenso imbarazzante per forze destabilizzanti e sostanzialmente fasciste, una bella prospettiva per il futuro e per le riforme.
Sopra a tutto, però, c’è il problema di un soggetto politico che ha ancora bisogno del padre, il quale ha 73 anni e difficilmente parteciperà ad altre elezioni (ce l’ha ora la maggioranza per farsi eleggere Presidente della Repubblica?).
Quindi complimenti, ma festeggiamenti pochi, perché i problemi sono solo all’inizio.
Visualizzazione post con etichetta futuro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta futuro. Mostra tutti i post
martedì 30 marzo 2010
venerdì 11 settembre 2009
In fondo, possiamo dimenticare 3000 morti, è per i vivi che stiamo lottando.
“chi muore giace, chi vive si dà pace” racconta un adagio popolare, che spiega come, dopo le lacrime, la vita sia condannata a continuare. È un bene che sia così, perché i vivi hanno bisogno di ragioni attuali per ciò che fanno, non possono continuare a vivere nel passato.
E così l’orrenda morte che tremila innocenti hanno trovato in una mattina di settembre non può essere il motore delle nostre azioni. La storia è piena di stragi, la storia è scritta con le stragi, non possono essere quelle a fare la differenza.
Per quanto noi si possa essere stati colpiti nell’anima da quei tre Boeing dirottati e fatti schiantare in nome della follia islamica, quei morti non bastano.
La realtà è che quello che è successo dopo lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo, per i vivi.
Lo stiamo facendo per proteggere la nostra sicurezza. Per contenere l’espansione della violenza del totalitarismo. Per impedire che regimi arricchiti dalla nostra stupidità energetica possano continuare a sabotare la pace nei paesi confinanti e nei nostri. Per stabilire, così come dopo la seconda guerra mondiale, dei nuovi principi, in nome dei quali non ci possa essere cittadinanza per pretese fondate sulla negazione della libertà dei singoli.
In questa guerra ci sono stati molti errori, il primo dei quali illudersi che la si potesse combattere riducendo al minimo il crepitar delle armi. Altri ce ne saranno, e il più grave sarebbe quello di dare ascolto a chi si vuole arrendere, a chi cerca l’appeasement col nemico.
Come nella seconda guerra mondiale, la resa non può essere considerata come opzione: non è una questione di “confini dell’impero”, ma della vita di ognuno di noi, di ciò che vogliamo per il nostro futuro. Ecco perché in questo giorno penso a quello che sarà di tutti noi domani, e non a quelle tremila povere vittime, che ieri lo sono state del fanatismo di Al Qaida, ma domani potrebbero esserlo della nostra viltà.
E così l’orrenda morte che tremila innocenti hanno trovato in una mattina di settembre non può essere il motore delle nostre azioni. La storia è piena di stragi, la storia è scritta con le stragi, non possono essere quelle a fare la differenza.
Per quanto noi si possa essere stati colpiti nell’anima da quei tre Boeing dirottati e fatti schiantare in nome della follia islamica, quei morti non bastano.
La realtà è che quello che è successo dopo lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo, per i vivi.
Lo stiamo facendo per proteggere la nostra sicurezza. Per contenere l’espansione della violenza del totalitarismo. Per impedire che regimi arricchiti dalla nostra stupidità energetica possano continuare a sabotare la pace nei paesi confinanti e nei nostri. Per stabilire, così come dopo la seconda guerra mondiale, dei nuovi principi, in nome dei quali non ci possa essere cittadinanza per pretese fondate sulla negazione della libertà dei singoli.
In questa guerra ci sono stati molti errori, il primo dei quali illudersi che la si potesse combattere riducendo al minimo il crepitar delle armi. Altri ce ne saranno, e il più grave sarebbe quello di dare ascolto a chi si vuole arrendere, a chi cerca l’appeasement col nemico.
Come nella seconda guerra mondiale, la resa non può essere considerata come opzione: non è una questione di “confini dell’impero”, ma della vita di ognuno di noi, di ciò che vogliamo per il nostro futuro. Ecco perché in questo giorno penso a quello che sarà di tutti noi domani, e non a quelle tremila povere vittime, che ieri lo sono state del fanatismo di Al Qaida, ma domani potrebbero esserlo della nostra viltà.
Etichette:
11 settembre,
futuro,
guerra,
islam,
Libertà,
terrorismo
giovedì 7 maggio 2009
Ora anche altri iniziano a dirlo: Fiat sta vendendo il comparto auto.
Ci voleva poco a capire che dietro alle fanfare nazionalistiche c’era la tanto agognata cessione del comparto auto da parte di Fiat.
Oggi, il velo dell’ipocrisia nazionale è rotto anche dal segretario dei metalmeccanici CGIL, che ad “Affari Italiani” spiega a chiare lettere che “l'Italia si prepara a vendere l'automobile all'estero. Questa è la sostanza dell'operazione Fiat-Chrysler-Opel. Nessuno conosce il nome di chi controllerà il nuovo assetto azionario che nascerà dal grande merger… Marchionne potrà diventare un dirigente di un grande gruppo internazionale dell'auto. Gli Agnelli potranno incassare una lauta plusvalenza di Borsa dalla vendita del loro pacchetto dopo che le azioni saliranno...”.
La valutazione del sindacalista è più che negativa, la mia no, ma i fatti restano gli stessi: gli Agnelli vendono, Marchionne si candida alla guida di una (si fa per dire) public company transcontinentale in cui le bandiere nazionali non avranno più alcun significato.
Oggi, il velo dell’ipocrisia nazionale è rotto anche dal segretario dei metalmeccanici CGIL, che ad “Affari Italiani” spiega a chiare lettere che “l'Italia si prepara a vendere l'automobile all'estero. Questa è la sostanza dell'operazione Fiat-Chrysler-Opel. Nessuno conosce il nome di chi controllerà il nuovo assetto azionario che nascerà dal grande merger… Marchionne potrà diventare un dirigente di un grande gruppo internazionale dell'auto. Gli Agnelli potranno incassare una lauta plusvalenza di Borsa dalla vendita del loro pacchetto dopo che le azioni saliranno...”.
La valutazione del sindacalista è più che negativa, la mia no, ma i fatti restano gli stessi: gli Agnelli vendono, Marchionne si candida alla guida di una (si fa per dire) public company transcontinentale in cui le bandiere nazionali non avranno più alcun significato.
lunedì 4 maggio 2009
Si scrive espansione, si legge cessione.
Il capitalismo italiano, ha una caratteristica particolare, che lo distingue da quello degli altri paesi del nord del mondo: non ha capitali.
Figlio di un Paese “naturalmente” povero, privo di materie prime che ne potessero supportare lo sviluppo originario (niente carbone, niente acciaio, niente estese pianure da sfruttare industrialmente, niente colonie…) il capitalismo italiano s’è per questo sviluppato dopo gli altri e s’è specializzato nella trasformazione di materie prime altrui… questa peculiarità gli è rimasta attaccata anche perché, intorno, il Paese ospite non è che stesse meglio: povero di risorse, frazionato in stati e staterelli, ha per secoli investito le proprie risorse in palazzi bellissimi, lasciando un’economia da pezzenti.Con l’unità d’Italia prima (fatta “a debito”) e due disastrose guerre poi, la situazione non poteva di certo cambiare.
La prima azienda nazionale, così, ha sempre riflettuto queste caratteristiche: specializzata in piccoli autoveicoli per necessità del proprio mercato principale, è cresciuta internamente senza mai espandersi per davvero all’estero, covando al proprio interno il germe del disastro degli anni passati: quello delle automobili non è un mercato dai grossi ricarichi in cui i piccoli veicoli rendono necessariamente meno di quelli grandi, sicché alla prima crisi sistemica o aziendale il castello rischia di finire a terra.
Un po’ per culo, un po’ grazie ai soldi dei contribuenti, un po’ per qualche scelta azzeccata, Fiat è ancora in piedi e, curiosamente, sembra impegnata in una conquista del mondo.
Ma continua a non avere un soldo.
E, allora, si capisce cosa sta succedendo.
La “conquista dell’America” è solo un episodio, il meno rilevante di una trasformazione definitiva del gruppo.
Nel rumoroso silenzio della stampa nostrana, che fa mostra di un orgoglio nazionalistico degno del tentativo di costruire un “impero” con le faccette nere dell’Abissinia, tra l’alleanza con gli indiani, la ricerca di partner in Cina, e la strana trattativa per Opel, Fiat in realtà sta cercando compratori.
Alla fine, un dignitoso player regionale, con il 20% di un player regionale nord americano sarà avviluppato in una rete di “alleanze” in cui sarà sempre in minoranza.
Nulla di più facile, a quel momento, che pilotare le “alleanze”, far nascere un nuovo gruppo dal capitale diffuso da cui, finalmente come da quasi vent’anno cercano, gli Agnelli potranno uscire.
Piano piano, le quote di capitale si ridurranno sempre più, soddisfando la legione di eredi della prolifica famiglia, e il marchio nazionale diverrà parte di un colosso transnazionale in cui le radici in mercati ben più popolosi del nostro e di quello europeo garantiranno, alla buon’ora, quei capitali da sempre mancati.
Figlio di un Paese “naturalmente” povero, privo di materie prime che ne potessero supportare lo sviluppo originario (niente carbone, niente acciaio, niente estese pianure da sfruttare industrialmente, niente colonie…) il capitalismo italiano s’è per questo sviluppato dopo gli altri e s’è specializzato nella trasformazione di materie prime altrui… questa peculiarità gli è rimasta attaccata anche perché, intorno, il Paese ospite non è che stesse meglio: povero di risorse, frazionato in stati e staterelli, ha per secoli investito le proprie risorse in palazzi bellissimi, lasciando un’economia da pezzenti.Con l’unità d’Italia prima (fatta “a debito”) e due disastrose guerre poi, la situazione non poteva di certo cambiare.
La prima azienda nazionale, così, ha sempre riflettuto queste caratteristiche: specializzata in piccoli autoveicoli per necessità del proprio mercato principale, è cresciuta internamente senza mai espandersi per davvero all’estero, covando al proprio interno il germe del disastro degli anni passati: quello delle automobili non è un mercato dai grossi ricarichi in cui i piccoli veicoli rendono necessariamente meno di quelli grandi, sicché alla prima crisi sistemica o aziendale il castello rischia di finire a terra.
Un po’ per culo, un po’ grazie ai soldi dei contribuenti, un po’ per qualche scelta azzeccata, Fiat è ancora in piedi e, curiosamente, sembra impegnata in una conquista del mondo.
Ma continua a non avere un soldo.
E, allora, si capisce cosa sta succedendo.
La “conquista dell’America” è solo un episodio, il meno rilevante di una trasformazione definitiva del gruppo.
Nel rumoroso silenzio della stampa nostrana, che fa mostra di un orgoglio nazionalistico degno del tentativo di costruire un “impero” con le faccette nere dell’Abissinia, tra l’alleanza con gli indiani, la ricerca di partner in Cina, e la strana trattativa per Opel, Fiat in realtà sta cercando compratori.
Alla fine, un dignitoso player regionale, con il 20% di un player regionale nord americano sarà avviluppato in una rete di “alleanze” in cui sarà sempre in minoranza.
Nulla di più facile, a quel momento, che pilotare le “alleanze”, far nascere un nuovo gruppo dal capitale diffuso da cui, finalmente come da quasi vent’anno cercano, gli Agnelli potranno uscire.
Piano piano, le quote di capitale si ridurranno sempre più, soddisfando la legione di eredi della prolifica famiglia, e il marchio nazionale diverrà parte di un colosso transnazionale in cui le radici in mercati ben più popolosi del nostro e di quello europeo garantiranno, alla buon’ora, quei capitali da sempre mancati.
Iscriviti a:
Post (Atom)