domenica 29 marzo 2009

Al termine della Messa, in attesa del Messia

Non ho seguito la spettacolare tre giorni di Roma.
Solo quest’oggi, a pranzo dai miei, ho visto “il più grande studio televisivo del mondo”, come lo definivano sul Giornale, ed effettivamente era colossale.
Non ho quindi ascoltato né il discorso di Fini, né quelli di Berlusconi.
Conosco abbastanza le dinamiche di assemblee e congressi per sapere che, a prescindere da quanto liberamente si intervenga sul podio, sono in realtà uno strumento di ratifica di equilibri preesistenti, e so anche che i discorsi dei leader sono, appunto, discorsi.
Di tutto il berlusconismo, anch’io trovo che, dopo il “discorso della calza”, il resto sia essenzialmente una riedizione, del resto l’uomo è uomo del fare, non uno celebre come poeta od oratore, e quindi, essendo anche un poco impegnato in questi giorni, non credo mi cercherò il filmato da vedere.
Detto questo, l’analisi di Polito mi pare interessante, e ve la propongo.
Buona lettura.

L'enigma del berlusconismo
Il Messia perenne, Quindici anni ed è sempre nuovo
di Antonio Polito

Ho rivisto anch'io, in questi giorni, il «discorso della calza». 26 gennaio '94. Non ho dovuto fare la mia brava e tardiva autocritica solo perché l'avevo già fatta da tempo: anch'io non avevo capito la portata e la durata di quella fondazione...
Quel discorso fu effettivamente un capolavoro. Puntò su due grandi assi: la rivoluzione liberale (con tutto quello che si portava appresso, la cultura del fare, la critica dei politici di professione, gli imprenditori che si occupano della cosa pubblica) e l'anticomunismo (aggiornato al dopo-Muro: la rivolta contro le tasse, lo statalismo intrusivo, il dominio culturale dell'intellettualità di sinistra nel discorso pubblico).

Fu talmente un capolavoro che niente l'ha eguagliato, nemmeno il discorso che ieri Berlusconi ha tenuto alla Fiera di Roma, e che è praticamente quello di allora, perfino letteralmente citato, solo più prolisso e con più capelli, ma in compenso davanti a una platea che, nelle sue file ordinate, ricordava molto da vicino l'esercito di terracotta dell'imperatore Qin Shi Huangdi. Berlusconi non ha mai prodotto niente di meglio del «discorso della calza», e in fin dei conti niente di diverso.

Questo ci dice che il berlusconismo resta un enigma anche quindici anni dopo la sua nascita. E sì, perché questo quasi Ventennio che tutti evocano e molti esaltano, è anche un eterno ritorno dell'uguale, e dunque è anche una storia di insuccessi. Come scrive Stefano Folli, chi è nato in quel gennaio del '94 oggi va al liceo, e tra un po' voterà. È passata una generazione. Ma, allo stesso tempo, Sergio Romano può ancora scrivere oggi, 28 marzo 2009, che gli oppositori «farebbero bene a interrogarsi sulle novità del fenomeno Berlusconi». Ora: come è possibile che si discuta ancora la novità di Berlusconi quindici anni dopo? Come fa qualcosa che ha quindici anni - e soprattutto in politica, campo in cui le novità si bruciano come fiammiferi svedesi - apparire e forse ancora essere «nuovo»?

La ragione fondamentale, a mio avviso, è che la rivoluzione berlusconiana non si è mai inverata. Non essendosi mai compiuta, ne ha salvato la carica escatologica, l'annuncio di un avvento. È qualcosa che resta nuovo perché deve ancora accadere, e da un momento all'altro accadrà, non appena il leader avrà finalmente il pieno consenso e il pieno potere che compiere quella rivoluzione richiede.
In questa attesa permanente, in questa promessa che si perpetua, c'è in parte il genio comunicativo e politico di Silvio Berlusconi: è lui che è bravo a tenerla sempre in vita. Ma c'è anche l'insuccesso di Berlusconi. Perché solo se le cose che lui predica da quindici anni non si sono ancora realizzate, si può ancora sperare e desiderare che si realizzino. In quindici anni la Thatcher aveva rivoltato la Gran Bretagna come un calzino, ed era pronta per il viale del tramonto. In quindici anni Kohl aveva fatto di due Germanie una, cambiando la storia dell'Europa, ed era pronto per l'oblio in cui ancora vive. In quindici anni Berlusconi è invece rimasto il Messia di quindici anni fa, il miracolo di cui ancora si aspetta il compimento. Per questo è ancora il «nuovo», nella politica italiana. In gran parte perché le promesse di quindici anni fa sono ancora tutte da realizzarsi.

Faccio due brevi esempi. Il primo è la rivoluzione liberale in economia. Meno tasse e più efficienza, il mutamento profondo della struttura produttiva del Paese. Ebbene: dal biennio Amato-Ciampi l'Italia non è cambiata poi molto da questo punto di vista. La pressione fiscale complessiva aumenta e cala di uno-due decimali, di governo in governo, ma resta tra le più alte del mondo libero. L'Italia è ancora un Paese in cui le banche e le industrie vanno aiutate, e il fatto che oggi lo facciano anche gli altri per via della crisi non toglie che il nostro Pil continua a crescere meno degli altri in tempi di vacche grasse e a decrescere più degli altri in periodi di vacche magre. La struttura produttiva del paese è ancora dipendente dalle esportazioni, invece che dal mercato interno e dal potere di spesa dei consumatori. Ma è ancora caratterizzata dalla frammentazione della micro-impresa, senza campioni capaci di innovazioni di prodotto e di processo tali da farci sperare di restare nel gruppo dei Grandi, ora che Cina, India, Brasile, Sudafrica ci insidiano il posto.

Altro esempio: la Grande Riforma istituzionale. Berlusconi si lamenta oggi, esattamente come quindici anni fa, di uno Stato inefficiente, di un Parlamento bizantino, di una architettura istituzionale che perde tempo e spreca risorse. Si capisce, e lo dirà con chiarezza domani, che sogna un sistema presidenziale. Ma non solo non ha compiuto in tutti questi anni un solo passo concreto verso il sistema di poteri che ha in mente, ma non è neanche riuscito ad emendare quelle piccole cose, come i regolamenti parlamentari, che fanno del Parlamento ciò che lui dice, un posto dove la gente scalda le sedie e spinge bottoni.
Mi si potrebbe obiettare che Berlusconi non è riuscito a fare tutte queste cose perché non ha potuto, pur volendo. In parte è vero. Un fatto che molti dimenticano, celebrando il quindicennio berlusconiano, è che in questo periodo il Cavaliere è stato al governo per poco più della metà del tempo. Più che di quindici anni, bisognerebbe parlare di sette anni e mezzo. Nove mesi alla prima legislatura, cinque anni alla seconda ma funestati dalle divisioni e dalla paralisi, un anno nella terza. Anzi, l'aspetto straordinario del dominio di Berlusconi sulla vita politica italiana sta proprio nel fatto che ha prodotto un così breve periodo di governo, che Berlusconi si sia fatto battere due volte da Prodi, e che non abbia mai governato per due legislature di seguito.

Un'altra obiezione che si potrebbe fare, e anche questa sarebbe in parte giusta, è che è difficile rivoltare l'Italia come un calzino perché l'Italia è un calzino bucato, e va prima rammendata, opera difficile e di lunga lena.

Ma sarebbe giusto ammettere che il bilancio di governo è magro anche e proprio perché il trionfo di potere è grande. Esattamente nel momento in cui Berlusconi raggiunge le più alte vette, e fonda un partito che ha l'ambizione e la possibilità di rappresentare un giorno la maggioranza assoluta degli italiani, cosa che non è mai accaduta nella storia della Repubblica, è giusto segnalare che tanta magnificenza del Principe non si è tradotta in altrettanta magnificenza del principato. L'Italia non ha vinto molte Champions in questi quindici anni, e anzi in molti campi gioca ormai in una lega minore.

Se questa analisi è corretta, ne deriverebbero delle conseguenze assai importanti per chi si oppone a Berlusconi. È infatti patetico, e talvolta un po' ridicolo, questo riconoscere oggi che Berlusconi ha interpretato al meglio il modo in cui l'Italia è cambiata, che viene da tanti nemici del Cavaliere: gente che, come Vendola, ora esagera nell'encomio dopo aver esagerato nella demonizzazione. Dicono: bisogna smettere di essere anti-berlusconiani per poter aver successo come anti-berlusconiani. Ma è una tautologia. Se continui a dire a Berlusconi che disprezza il Parlamento, pur sapendo quello che è oggi il Parlamento e quello che gli italiani pensano del Parlamento, vuol dire che non hai capito niente del berlusconismo, e allora è inutile impegnarsi in pensose autocritiche. Se continui a dire, quindici anni dopo, che Berlusconi sta lì perché ha capito la forza dei media, fai finta di essere moderno e di aver capito finalmente anche tu la forza dei media, ma non hai capito lo stesso niente, e cioè che lui non sta lì per la forza dei media ma per la forza del messaggio (inaugurare l'inceneritore di Acerra, dopo la storia dei rifiuti a Napoli, è un messaggio potentissimo, e non cambia niente che a mostrarlo sia la tv).

Se davvero la sinistra ha capito perché Berlusconi domina la scena politica italiana da quindici anni, e perché rischia di dominarla ancora a lungo, allora dovrebbe smetterla di contrastare il messaggio di Berlusconi, e concentrarsi sul governo di Berlusconi. Competere con lui su quello che va fatto, accettando che va fatto, che è un bene per il Paese, che è esattamente la ragione per cui la maggioranza degli italiani lo approva, e diventare il più convincente alfiere della sua realizzazione.

Il New Labour di Blair chiuse il ventennio conservatore quando apparve - e fu - più duro con il crimine di quanto lo fosse mai stata la destra. I new democrat di Clinton chiusero la stagione reaganiana solo quando assorbirono nel loro progetto economico quella rivoluzione, e dimostrarono agli americani di poterla proseguire con più efficacia, con più giustizia, e con più aderenza ai tempi che erano cambiati.
Oggi c'è la crisi economica che offre questa grande opportunità all'opposizione. Ma se a ogni idea di Berlusconi per fronteggiarla (prendete la manovra per rilanciare l'edilizia) si reagisce col riflesso condizionato del no, invece che con l'alternativa del come, si continua a costruire il piedistallo da cui Berlusconi potrà annunciare ancora e ancora il suo avvento, la sua novità permanente che non invecchia mai, e fornire sempre nuovi motivi agli italiani per convincerli che, se davvero vogliono che arrivi il Messia, devono prima liberarsi proprio dell'opposizione.


il Riformista

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