giovedì 14 maggio 2009

Le parole che uccidono

Quando si pensa agli anni settanta, a quell’infame “secondo tempo” della guerra civile che chiuse la nostra infausta partecipazione alla seconda guerra mondiale, spesso si dimentica che fu, davvero, una guerra civile.
Combattuta da pochi, qualche migliaio di terroristi, in fondo, ma vissuta, spesso con ambiguità, da tanti.
Qualche giorno fa è passato su Dagospia un articolo di Repubblica, che racconta su quale baratro ci affacciammo più di tanti tomi storici.
È l’intervista al giornalista del “Sole” Andrea Casalegno, che fa i conti su cosa abbia voluto dire per lui essere il figlio del giornalista Carlo Casalegno, allora vicedirettore de “la Stampa”, “servo dei padroni” assassinato dalle brigate rosse.
Fa i conti col suo cognome e soprattutto con le sue responsabilità, perché ci permette di guardare sul dramma privato di un episodio pubblico: quello di un figlio che si accorge all’improvviso che le sue non erano solo parole, che la foga con cui in tanti pensarono di fare “la nuova resistenza” senza il bisogno di salire in montagna e potendo contare sulle comodità e le protezioni dello stato borghese (Giorgio Bocca racconterà in un suo libro di questi genitori borghesi che proteggevano i figli “rivoluzionari”), che la sua stessa foga, aveva ucciso suo padre.


Ieri come oggi solo slogan idioti e anch' io ne porto la responsabilità
Repubblica — 12 maggio 2009 pagina 10 sezione: POLITICA INTERNA

Nessuno può dimettersi dalle sue responsabilità, dice Andrea Casalegno: «Non chi lanciò la campagna contro il commissario Calabresi al grido di "Calabresi assassino", non chi quel giorno, alla Questura di Milano, doveva condurre l' interrogatorio di Giuseppe Pinelli».
Come i protagonisti di un romanzo di Sarte, Andrea Casalegno vive ancora oggi al crocevia di quella storia.

Figlio di Carlo, il vicedirettore de La Stampa assassinato dalle Br, Andrea è un ex militante di Lotta Continua, il gruppo che aveva lanciato la campagna contro Calabresi.
Oggi che il figlio del commissario, Mario, dirige il quotidiano di Torino, il vecchio grido «Calabresi assassino» torna sul muro di fronte alla redazione de La Stampa.

Casalegno, che senso ha ripetere oggi lo slogan che lanciaste allora? 
«Non ho mai ritenuto che avesse senso nemmeno quando lo lanciammo. Questo non mi scarica certo dalla responsabilità di aver partecipato attivamente all' attività di Lotta Continua e di averne condiviso gli obiettivi di fondo. Ho sempre pensato però che la personalizzazione dello scontro fosse un grave errore. E ho sempre ritenuto che la parola "assassino" debba essere usata con particolare cautela e sobrietà. Oggi poi, a trent' anni di distanza, il gesto mi sembra frutto di un estremismo idiota. Nell' Italia di questi anni, del resto, è molto difficile essere estremisti intelligenti».

Che cosa vuol dire «non dimettersi dalle proprie responsabilità»?

«Vuol dire che la stretta di mano tra le vedove di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi di fronte al Presidente Napolitano è un fatto molto importante e positivo ma non può significare che si volta pagina, com' è di moda dire in questi giorni. Semplicemente perché le pagine scritte sono scritte, le scelte che ciascuno ha compiuto rimangono e non si possono cancellare».

Lei ha mai incontrato gli assassini di suo padre? 
«No e non intendo farlo».

Non crede che qualcuno di loro possa essersi ravveduto? 
«Il grilletto della Nagant che uccise mio padre è stato premuto da Raffaele Fiore. Poco tempo dopo il pentimento di Patrizio Peci, capo della colonna torinese della Br, fece chiarezza su ogni dettaglio di quell' omicidio. Io non ho mai avuto curiosità da soddisfare con gli assassini di mio padre. Penso anzi di non avere nulla da dire loro. Apprezzo chi si dà da fare per difendere anche i colpevoli. Sono d'accordo con chi dice: "Nessuno tocchi Caino". Ma non me la sento di stringergli la mano. Perché la scelta di togliere la vita a qualcun altro non è un semplice errore rimediabile, è una scelta di vita. Ci si può definire "ex brigatista" ma non "ex assassino"».

Che cosa significa per lei non dimettersi dalle sue responsabilità? 
«Significa non nascondersi che anche io ho partecipato, con altri, ad elaborare e diffondere una teoria che si diceva rivoluzionaria. E che per molti di noi, anche se non per me, quella teoria poteva anche prevedere gesti estremi come l' assassinio. Una teoria rivoluzionaria senza alcuna speranza di realizzarsi che individuava dei nemici, li additava, e non distingueva tra la persona e l' istituzione che quella persona rappresentava. Questa impostazione, interpretata in modo distorto, ha avuto conseguenze indirette molto gravi. E un giorno di novembre del ' 77 ha portato qualcuno ad appostarsi davanti al portone di casa nostra a Torino e a uccidere mio padre. Io queste cose non le ho dimenticate».

Quali conseguenze ha avuto quella vicenda sulla sua vita? 
«Anch' io ho fatto il giornalista come mio padre. Ma non ho mai voluto occuparmi di politica. Scrivo di scuola e letteratura sul Sole 24 ore e ho sempre evitato di andare oltre. Non penso che sia giusto, per chi ha commesso un grave errore di valutazione politica, tornare a decenni di distanza a dare lezioni come se nulla fosse accaduto».

Non tutti i suoi compagni di allora hanno compiuto la stessa scelta. Come li giudica? «Io non mi permetto di giudicare nessuno. Capisco anche che ci sia chi percorre altre strade. Che non sono la mia».

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