martedì 9 novembre 2010

Cina e diritti umani: un giorno malediremo la nostra "realpolitik"

«La Cina è un luogo dove non esiste libertà di espressione, dove l´accesso alle informazioni è limitato dalla censura, dove non si svolgono elezioni e dove la giustizia dipende dalla violenza del potere. Il mondo deve capire cosa significa trasformare un luogo simile nella prima potenza del pianeta».
L´archistar dissidente Ai Weiwei, liberato ieri notte dopo tre giorni ai domiciliari, non rinuncia ad attaccare le autorità cinesi. Accusa però la comunità internazionale, dopo la crisi economica del 2008, di aver «rinunciato a richiamare Pechino al rispetto dei valori fondamentali per paura di perdere qualche affare».
Perché le viene consentito di avanzare critiche che la Cina giudica illegali?
«Perché Internet è un´arma più potente del regime. Ormai tutti sanno tutto, anche in Cina, e questa forza causerà il crollo della dittatura. E´ la ragione per cui tutti i leader del mondo devono porre a Pechino il problema della violazione dei diritti umani».
Le pare che l´impegno internazionale sia venuto meno?
«L´atteggiamento globale fa pietà. Arrivano in Cina capi di Stato e di governo e nessuno osa pronunciare in pubblico le parole "diritti umani". Come possono essere così miopi? I grandi leader, dopo il Nobel per la pace, non si arrischiano nemmeno a dire il nome Liu Xiaobo. I figli dell´Occidente malediranno questo errore».
Pensa che il regime cinese sia colpa dell´Occidente?
«No, ma Usa ed Europa sono responsabili della sua durata e della sua crescita. Governo e società cinesi non sono efficienti come si dice. Istruzione, ambiente e diritti dei lavoratori sono sacrificati da un sistema inumano. Si arricchiscono i funzionari del partito e i loro amici-schiavi. Non durerà a lungo e l´Occidente sarà il primo a pagare il crollo di questa Cina».
Venerdì l´hanno arrestata, ma la sua festa-denuncia si è svolta lo stesso: perché?
«Domenica volevo festeggiare la demolizione forzata del mio atelier di Shanghai, celebrare la vendetta del potere con gli amici. La polizia ha preso me, ma non è riuscita a imprigionare altri seicento individui liberi. Temevo per la loro incolumità, li ho invitati a stare a casa. Invece hanno sentito la "festa dei granchi" come una responsabilità. Per il governo è stato uno shock, è stato molto commovente».
Le sembra possibile che la Cina scelga le riforme?
«Non che le scelga, ma che il cambiamento ci travolga. E´ già in atto, davanti a noi, e cambiare è l´unica possibilità per evitare un bagno di sangue».
Grazie alla sua fama, lei è sempre stato libero: perché ha scelto lo scontro?
«L´umanità ormai è globale. Se i diritti fondamentali vengono cancellati dal denaro e la democrazia cede alla dittatura, presto nessuno sarà più libero. La Cina è lo specchio che riflette il futuro del mondo, non vederlo sarà una tragedia per tutti».
Non teme il carcere?
«Non ho alternative. Potrei solo lasciare la Cina, ma la mia terra è qui. Però se tutto il mondo alza la voce, mi sento più tranquillo».
Andrà a Oslo, il 1º dicembre, per ritirare il Nobel per la pace di Liu Xiaobo?
«Sarebbe un onore, ma temo che se raggiungessi l´Europa, il governo cinese non mi lascerebbe più tornare in patria. Spero però che migliaia di persone, di tutto il mondo, si presentino a Oslo con una maglietta con la scritta "Io sono Liu Xiaobo". Pechino non potrà più fare finta di nulla, se la società civilizzata smetterà di considerare la Cina una nazione civile».

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(ebbene sì, sono tornati i captcha o come accidenti si chiamano; purtroppo ho dovuto metterli per bloccare una nuova ondata di spammer a luci rosse)