venerdì 26 febbraio 2010

Inchiesta G8: quel pericoloso barcollare tra lo stile Di Pietro e i risultati De Magistris…

A due settimane dalla frana sulla Protezione civile, la sorpresa si è attenuata, un po' di polvere si è diradata. A che punto ne siamo? Guido Bertolaso ha smesso di passare la vita in tv per dirsi tranquillo con la faccia in gramaglie. Ha rimesso il maglioncino e si è tuffato nei sinistri tra gli urrà dei sinistrati. Gli rimane il desiderio di essere sentito dai giudici che sono però presi in arzigogoli tra i tribunali di Firenze e di Perugia. Porti pazienza, il suo turno verrà.

I quattro arrestati restano in galera. L'imprenditore Diego Anemone e il funzionario Fabio De Santis si sono avvalsi della facoltà di tacere. Gli altri due - il presidente del Consiglio superiore dei LLPP, Angelo Balducci, e il funzionario, Mauro Della Giovampaola - hanno parlato ma i giudici non gli credono. Tra i motivi accampati per tenerli in gattabuia ce n'è uno che sarebbe curioso se non fosse detestabile. «Il tenore degli interrogatori - è scritto nel parere negativo al rilascio - evidenzia l'assenza di una pur minima presa di coscienza della grave illiceità dei comportamenti tenuti».

Tradotto: poiché gli imputati non accettano le tesi colpevoliste dei magistrati, gli oppongono il loro punto di vista, in una parola, si difendono come farebbe chiunque di noi, manifestano una pericolosa tendenza a delinquere. Restino perciò in cella finché non verranno a più miti consigli. Come dire: o confessate o noi gettiamo la chiave.

È lo stile Di Pietro e del pool di Milano ai tempi di Tangentopoli. Se ti professi innocente languisci in carcere. Se ti dichiari colpevole, esci. Chi ricorda ancora la vecchia vicenda sa che, all'epoca, il foro si divise. C'erano difensori - il paradigma fu l'avvocato Lucibello, amico di Di Pietro - che capìta l'antifona, spingevano i clienti ad ammettere tutto, anche oltre le responsabilità, pur di riguadagnare la libertà.

Ce n'erano altri, meno «moderni», che incoraggiavano gli assistiti a difendersi a costo di prolungare il soggiorno nelle patrie galere. Sull'uso discutibilissimo di utilizzare i rigori del carcere per prendere l'imputato alla gola ci furono polemiche a non finire anche perché intanto la gente si suicidava. La conclusione del dibattito fu che si trattava di un modo obliquo per ripristinare la tortura. È inquietante che, vent'anni dopo, la giustizia ricorra ancora ad argomenti di marca dipietresca.

Un altro fatto colpisce. Nell'inchiesta manca, per così dire, il morto. Non sembra, stando ai giornali, che gli inquirenti abbiano indicati quali siano gli appalti truccati. Ossia, le grandi opere che hanno subito maggiorazioni di prezzo, in che misura rispetto ai preventivi, dove siano state fisicamente e geograficamente commesse le irregolarità.

La sola operazione di cui si parla, pomposamente battezzata la Madre di tutti i brogli, è la Scuola dei marescialli di Firenze. Un cantiere aperto da oltre un decennio, con lavori più volte interrotti per sospetti, ricorsi di ditte concorrenti e il cui costo è mostruosamente aumentato col tempo. La costruzione però non rientra tra quelle urgenti della Protezione civile.

È anzi il prototipo dell'opera edificata in base alla normale legislazione sugli appalti. Quella che a sentire i soloni di questi giorni dovrebbe garantire trasparenza, certezza del diritto e utopie varie. Il che, con ogni evidenza, non è. Poiché sono spesso proprio le farragini delle norme sugli appalti ordinari che consentono - tra concorsi, varianti e ricorsi - di fare lievitare i prezzi e favorire taglieggiamenti a ogni passaggio.

Nelle ventimila pagine dell'inchiesta non c'è invece, che si sappia, l'indicazione dello specifico imbroglio tra le emergenze della Protezione civile dalla Maddalena, all'Aquila o in altri disastri nazionali: qui si partiva da un prezzo e si è arrivati al triplo; qui è stata esautorata la ditta legittima per favorire quella abusiva; tu hai preso i soldi e in questa misura per tradire il tuo mandato e così via. Bastavano cinquanta pagine. Ma di fatti.

Ci sono, in cambio, miriadi di intercettazioni. Tante però superflue, pettegole, suggestive.

Esilarante quella della «ripassatina» di Bertolaso che, spacciata per un'avventura sadomaso, si è rivelata un massaggio cervicale. O la telefonata in cui l'apprensiva madame Verdini, moglie di Denis, coordinatore del Pdl, parla dei problemi del figlio.

«Che c'entrano queste registrazioni con le indagini in corso? - si è chiesto l'ex presidente del Senato, Marcello Pera -. È professionale quella procura che le ha disposte, pagate, passate ai giornali?». E conclude: «I procuratori non sanno più e non vogliono fare indagini. C'è un degrado allarmante nel costume pubblico ma c'è una degenerazione anche più grave nelle stanze della giustizia».

Altre sbobinature sono più in tema. Ma anche quando puntano su presunti accordi criminali emergono contraddizioni da ficcarsi le dita nei capelli. Per i magistrati, l'imprenditore Diego Anemone - quello dello Sporting Center dei massaggi bertolasiani, ora in galera - è il grande corruttore dell'inchiesta. Avrebbe regalato a Balducci auto di lusso, telefonini, orologi. Ristrutturato sue ville e appartamenti, pagato domestici, assunto figli e fidanzate. Uno sceicco.

Poi però ci rifilano un'intercettazione in cui il nababbo, che (stando a loro) vorrebbe corrompere Bertolaso, pare un pirla senza il becco di un quattrino. Tanto da essere costretto a telefonare a un prete amico, don Evandro, per procurarsi la mazzetta. «Don Evà, scusa se ti scoccio. Stamani devo vedere una persona (Bertolaso, ndr). Tu come stai messo?». «Di soldi? Ne ho solo dieci», replica don Evà e aggiunge che gli ci vorrà del tempo per arrivare a 50mila. Così - insinuano i pm - sfuma stavolta la regalia. Ridicolo.

Di cose simili, l'inchiesta tracima.

Altrove però si percepisce effettivamente un clima di confidenza eccessiva tra funzionari dello Stato e imprenditori. Quasi una connivenza.

Ci sono comportamenti che chiunque rivesta un ruolo sociale deve in ogni caso evitare. Un sommelier che degusta il vino dopo il caffè si squalifica. A un prete cade l'aureola se si aggira tra le quinte di un tabarin. Il controllore perde la faccia se va a braccetto col controllato. Sono atteggiamenti malsani che autorizzano sospetti.

Ma non sono prove. Come autorizza sospetti il magistrato che va in tv, firma appelli, si schiera politicamente. Ma per dire che i giudici truccano le sentenze e i funzionari gli appalti, ci vuole altro. Le prove, appunto.

Restiamo in attesa.

Giancarlo Perna per "il Giornale"

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