“chi muore giace, chi vive si dà pace” racconta un adagio popolare, che spiega come, dopo le lacrime, la vita sia condannata a continuare. È un bene che sia così, perché i vivi hanno bisogno di ragioni attuali per ciò che fanno, non possono continuare a vivere nel passato.
E così l’orrenda morte che tremila innocenti hanno trovato in una mattina di settembre non può essere il motore delle nostre azioni. La storia è piena di stragi, la storia è scritta con le stragi, non possono essere quelle a fare la differenza.
Per quanto noi si possa essere stati colpiti nell’anima da quei tre Boeing dirottati e fatti schiantare in nome della follia islamica, quei morti non bastano.
La realtà è che quello che è successo dopo lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo, per i vivi.
Lo stiamo facendo per proteggere la nostra sicurezza. Per contenere l’espansione della violenza del totalitarismo. Per impedire che regimi arricchiti dalla nostra stupidità energetica possano continuare a sabotare la pace nei paesi confinanti e nei nostri. Per stabilire, così come dopo la seconda guerra mondiale, dei nuovi principi, in nome dei quali non ci possa essere cittadinanza per pretese fondate sulla negazione della libertà dei singoli.
In questa guerra ci sono stati molti errori, il primo dei quali illudersi che la si potesse combattere riducendo al minimo il crepitar delle armi. Altri ce ne saranno, e il più grave sarebbe quello di dare ascolto a chi si vuole arrendere, a chi cerca l’appeasement col nemico.
Come nella seconda guerra mondiale, la resa non può essere considerata come opzione: non è una questione di “confini dell’impero”, ma della vita di ognuno di noi, di ciò che vogliamo per il nostro futuro. Ecco perché in questo giorno penso a quello che sarà di tutti noi domani, e non a quelle tremila povere vittime, che ieri lo sono state del fanatismo di Al Qaida, ma domani potrebbero esserlo della nostra viltà.
L'importante è continuare a sbagliare come si è fatto fin'ora. Altrimenti va a finire che ci guadagnano le popolazioni sfruttate.
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