Kyoto e l'effetto serra:
un'eco-bolletta da 840 milioni
Cinquecentocinquanta milioni di euro, solo per il 2009, che potrebbero diventare 840 entro il 2012. È il conto, salato, che l'Italia rischia di pagare se vuole rispettare il tetto imposto alle emissioni di CO2 (anidride carbonica), gas ritenuto responsabile dell'effetto serra e del riscaldamento globale. Un costo per il paese, in difficoltà sui target, frutto di una negoziazione condotta un anno e mezzo fa a Bruxelles (era ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio). Rispetto ai limiti imposti dall'Europa infatti (l'Italia tra il 2009 e il 2012 può liberare nell'aria 201 milioni di tonnellate di CO2), avremo emissioni in eccesso per 56 milioni di tonnellate. Ciò rappresenta un costo: per produrre corrente elettrica, carta, cemento, acciaio e altre materie prime essenziali, il paese dovrà acquistare sui mercati internazionali dell'anidride carbonica diritti di emissioni che costano in media sui 12-15 euro la tonnellata. La stima di spesa per il sistema Italia per rientrare nei parametri è così nell'ordine degli 840 milioni. I tempi sono stretti. Nel solo 2009 si stimano 37 milioni di tonnellate di anidride carbonica di troppo, pari appunto a un costo di 550 milioni. Le conseguenze possono essere pesanti: già in autunno la nuovissima centrale a carbone che l'Enel ha finito da poco a Civitavecchia potrebbe rischiare lo stop. Stesso scenario per un'altra ottantina di impianti di ogni genere. Il problema riguarda infatti soprattutto le nuove installazioni. Ovviamente, tutto ciò non avrebbe alcun beneficio ambientale e si limiterebbe in un trasferimento semplice e diretto di denaro dai cittadini italiani verso chi ha diritti di emissione. Per esempio, verso le imprese tedesche e francesi (meno efficienti di quelle italiane sul fronte delle emissioni) i cui governi hanno negoziato a Bruxelles limiti assai più agevoli, anzi, così agevoli e comodi che gli impianti esteri possono emettere anidride carbonica a tonnellate senza nemmeno avvicinarsi ai tetti europei. L'allarme viene da una relazione del Comitato di gestione del Protocollo di Kyoto, autorità che ogni paese europeo deve darsi per seguire gli aspetti operativi e tecnici per ridurre la CO2 liberata in aria dalle ciminiere. In Italia il Comitato di gestione è formato dai ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo economico, ed è presieduto da Corrado Clini, direttore generale al ministero dell'Ambiente. Nei giorni scorsi il Comitato ha mandato uno studio ai ministri Giulio Tremonti (Economia), Stefania Prestigiacomo (Ambiente), Claudio Scajola (Sviluppo economico), Franco Frattini (Esteri) e Andrea Ronchi (Politiche comunitarie). La relazione dice che il piano nazionale delle emissioni per il periodo 2008-2012 «ha attribuito agli impianti esistenti 184,7 milioni di tonnellate di CO2 l'anno, mentre 16,93 milioni di tonnellate l'anno sono state destinate alla riserva nuovi entranti ovvero agli impianti che al momento della notifica del piano nazionale alla Commissione europea non avevano ancora ottenuto l'autorizzazione ad emettere gas ad effetto serra o non erano ancora entrati in esercizio. La rilevante differenza tra il fabbisogno stimato e l'assegnazione delle quote con il piano nazionale, come previsto ha determinato e sta determinando una situazione di particolare criticità, soprattutto per quanto riguarda la riserva nuovi entranti». Per il ministro dei rapporti con l'Europa Andrea Ronchi «i nuovi dati dimostrano che il governo italiano ha fatto una battaglia giusta, anche se solitaria nella fase iniziale, per correggere errori e velleità del passato che finiscono solo per avere una ricaduta su imprese e consumatori». Un fatto – insiste il ministro – «che è ancora più grave proprio perché nel frattempo si è aggravata la crisi dell'economia mondiale: l'ambiente è un tema strategico e rappresenta una risorsa ma va affrontato con ragionevolezza e senza demagogia». Tutto nasce dall'aver voluto fare i “primi della classe”. Il 28 febbraio 2008 l'Italia aveva proposto a Bruxelles un “tetto” massimo annuale di quote inferiore di almeno il 15% rispetto al fabbisogno necessario: 201,63 milioni di tonnellate, contro una stima di almeno 230 milioni data dai ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo Economico. Proposta piaciuta a Bruxelles e a tutti gli altri paesi europei, pronti a vendere a caro prezzo alle imprese italiane i diritti di emissione che loro avevano in eccesso. Il governo di allora si chiese: e se ci fossero problemi? L'unica risposta per proteggere la competitività delle imprese italiane fu l'impegno del governo – in caso di deficit di quote – a comprare con soldi pubblici i diritti e a donarli a tutti i nuovi impianti industriali che sarebbero entrati in servizio a partire dal 2008. In altre parole, è stato scaricato sul pubblico il costo di una distorsione ideologica a danno dell'economia italiana.
Per il Comitato di gestione di Kyoto, come soluzione potrebbe essere valutato il ricorso a un soggetto terzo (come la Cassa depositi e prestiti) per anticipare i soldi necessari a comprare i diritti di emissione, con un successivo rimborso da parte del sistema pubblico. «Avevo ripetutamente e invano segnalato al ministro dell'Ambiente di allora – ricorda Clini – che, considerati gli elevati livelli di efficienza energetica delle imprese italiane, un tetto inferiore al fabbisogno avrebbe comportato costi aggiuntivi ed effetti distorsivi per l'economia italiana. Ma il ministro era convinto che in questo modo le imprese italiane sarebbero state costrette a investimenti in nuove e più efficienti tecnologie».
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