Il fatto che “Alitalia – Linee Aeree Italiane” non sia stata dichiarata formalmente fallita, che non sia stato nominato un curatore fallimentare e che un Tribunale della Repubblica non si sia dovuto pronunciare sull’eventuale prosecuzione temporanea dell’attività d’impresa ai sensi dell’articolo 104 della legge fallimentare, è solo un marginalia, legato al fatto che, in quanto impresa controllata in misura maggioritaria dal Tesoro dello Stato, non era elegante fosse dichiarata fallita.
Ma se si fosse trattato di una qualunque altra impresa, tale dichiarazione sarebbe stata inevitabile, con immediata apertura d’un procedimento penale a carico delle ultime tre generazioni di amministratori per concorso in bancarotta fraudolenta.
Ora però, in ragione di questo piccolo particolare (la mancata dichiarazione di fallimento), c’è chi non percepisce esattamente lo stato delle cose e farnetica, come se non fosse successo nulla.
La nuova compagnia “CAI – Compagnia Aerea Italiana” non è la continuazione di Alitalia sotto altre forme, e male s’è fatto a chiamare il piano “Fenice”, alludendo a una rinascita di Alitalia dalle proprie ceneri.
La nuova compagnia nasce dai capitali di imprese private che non hanno partecipato al disastro precedente: non ci sono diritti acquisiti, posti di lavoro da salvare, mission pubbliche o amenità simili, perché tutto è andato distrutto col fallimento.
La nuova compagnia mette sul piatto un miliardo circa di euro per comprare rotte e strutture e avviare una nuova compagnia, che dovrà seguire le stesse regole di tutte le altre compagnie aeree occidentali (si vola se si fanno i soldi, sennò si chiude la tratta) e che solo per motivi di marketing si chiama nello stesso modo.
Se si fosse seguita l’ordinaria procedura fallimentare tutto sarebbe stato più chiaro: il fallimento, la morte della compagnia, una bella asta, l’acquisto da parte del migliore offerente delle spoglie mortali libere da ogni vincolo precedente…
Non si poteva fare, per motivi politici e - concediamo – anche strategici, e questo è alla base di alcune convinzioni perniciose sulla possibilità di porre vincoli imprenditoriali a chi ha deciso di provare questa scommessa, ma tali convinzioni è meglio siano accantonate in fretta e combattute senza esitazione: Alitalia è morta, uccisa da una folle gestione e sepolta da una montagna di debiti, il Paese tutto ne piange la scomparsa, ma non è il caso di infettare il nuovo nato con quello stesso morbo.
Ancora una volta il rosso ce lo becchiamo noi contribuenti, e il bello di Alitalia se lo prendono gli imprenditori furbetti italiani, che come al solito rischiano zero. Salvo poi tra qualche anno vendere tutto ad un grosso vettore straniero.
RispondiEliminaQuesto paese non si recupera più.
Calamar, guarda che questo è vero, ma non è corretto.
RispondiEliminaAlitalia era un'azienda pubblica, finanziata dallo Stato per anni, è scontato che quando un'azienda fallisce l'imprenditore ci rimetta tutto.
Di Alitalia sono rimaste le proprietà immobiliari, le rotte e l'avviamento, poiché gli aerei o non sono suoi o sono molto vecchi e di scarso valore.
Insomma, quel che c'è, pur valendo più del mio e tuo patrimonio messi insieme (del mio sicuramente :-) ) non basterà a pagare i debiti, e non consente di continuare a far funzionare la baracca (che perde il solito milione di euro al giorno).
Cosa resta? nulla.
Qui ci sono degli imprenditori che comprano a prezzi di saldo (sono imprenditori, mica filantropi), ma è quello il prezzo giusto su qualunque mercato. E ci mettono un miliardo di euro freschi.
Se ci va bene, lo Stato italiano guadagnerà un contribuente che pagherà le tasse sui propri utili, se succedesse anche solo questo saremmo fortunati.
Forse (e sottolineo forse)che l'offerta di air france era meglio.
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